Viaggio ad Atene
13 aprile 2022
Sono le 21.14, sono a casa a Roma e domani partirò per Atene dove starò per qualche giorno per conoscere alcune delle persone supportate da Love and Serve Without Boundaries, un’Associazione locale che si occupa di offrire aiuto a rifugiati e ad altre persone in difficoltà attraverso varie attività come le classi d’inglese, l’asilo per i più piccoli, la distribuzione del cibo e molto altro. L’Associazione è fondata e gestita da Maria, una donna originaria del Kenya, che mi è stata presentata dall’Associazione italiana che ha permesso questo mio viaggio – Volunteer in the world – come una donna molto coraggiosa e so che conoscerla sarà un vero onore.
Non ho davvero capito che la partenza sarà domani. Questa è la seconda volta in cui andrò all’estero per conoscere delle persone scappate da Paesi in guerra o vittime di altre situazioni difficili, che adesso vivono in un Paese, in questo caso la Grecia, che non è il loro. La mia prima volta è stata circa due mesi quando sono andata per una settimana in un campo profughi spontaneo al confine fra la Turchia e la Siria, con la Onlus della provincia di Bergamo “Support and Sustain Children”, e in realtà credo di non aver ancora elaborato pienamente quello che ho visto e vissuto in quel viaggio, e forse mai lo farò. Incontrare queste persone mi spinge ogni volta a voler fare sempre di più, nel mio piccolo, e quello che so fare e amo fare è scrivere e quindi voglio usare la scrittura, in tutti i modi possibile, perché le voci di questa gente arrivino a sempre più persone in Occidente. Nei Paesi occidentali, infatti, ci sono ancora troppe persone che non si preoccupano abbastanza degli altri e di cosa succede in questo nostro mondo. Credo che sia necessario divulgare le storie di queste persone per spianare una strada basata sull’accoglienza, le tutela dei diritti umani per tutti e il rispetto tra esseri umani.
Come il solito, non mi aspetto niente. Partirò pronta ad assorbire, come una spugna, tutto quello che mi si presenterà davanti, consapevole dell’onore che ho nell’incontrare queste persone e della fiducia che loro, raccontandomi parti della loro storia, mi danno. È un onore che non ho mai preso, né prenderò, con leggerezza.
14 aprile 2022
Ore 11
Sono in volo. L’aereo è decollato circa venti minuti fa. Ai controlli è andato tutto bene. A parte il dover esibire il Green Pass, sembra di essere tornati ai viaggi prima della pandemia. Atterreremo alle 13.25. Andrò in hotel a lasciare i bagagli e da lì al centro di LSWB.
Ore 16
Sono al centro LSWB dopo che una delle volontarie è venuta a prendermi alla metro perché nessuno lì intorno parlava inglese e, anche se sapevo che il centro LSWB dista circa dieci minuti a piedi dalla stazione della metropolitana, non c’erano né indicazioni né persone che mi capissero e quindi Ella, la volontaria, mi è venuta incontro. Maria mi dice che, siccome molte persone del centro festeggiano il Ramadan, in questi giorni avranno un’affluenza minore. Ogni due settimane distribuiscono il cibo. Il centro è una specie di grosso magazzino che si affaccia su un marciapiede. Scendi le scale e da una parte trovi l’ufficio di Maria e, andando avanti, una stanza spaziosa dove vengono riposti sacchi di cibo, oggetti e quant’altro e che viene anche usata per delle attività, come alcune delle lezioni per i bambini. Ci sono anche i bagni e uno sgabuzzino. Il centro dispone anche di un paio di stanze in un edificio molto vicino, è sufficiente attraversare la strada per arrivarci. Mi colpiscono subito i messaggi appesi alle parete sul vero senso della parola “famiglia” e varie scritte motivazionali, rivolte principalmente ai bambini, sull’importanza d’imparare.
Oggi non ci sono attività in programma. Ella e un altro ragazzo, mi sembra che il nome sia Dave, provengono dal Regno Unito e poi c’è Davide, italiano. Tutti e tre sono qui per svolgere un programma di volontariato perché LSWB collabora con diverse realtà per “reclutare” volontari che possono mandare avanti il centro aiutando nell’insegnare l’inglese, nel distribuire il cibo e via dicendo. Adesso i volontari stanno mettendo a posto delle scatole.
Scrivo seduta nel letto. Oggi ho chiesto ai volontari se le persone aiutate da LSWB lavorano e uno di loro mi ha risposto di sì, e chi ancora non lavora, sta cercando un impiego. Tra loro però ci sono delle persone che non hanno i documenti in regola e quindi per loro trovare un lavoro è molto più difficile di quanto non lo sia per chi, invece, ha i documenti in regola. In questi casi di solito non si parla di “lavoro” ma più di sfruttamento perché queste persone sono costrette a lavorare a lungo per una misera paga. Se osassero andare dalla polizia per denunciare le condizioni di lavoro o la poca paga, correrebbero il rischio di essere deportate. Poiché oggi non ci sono attività con i beneficiari verso le 17.00 sono andati tutti via, e anche io. Nonostante un po’ di stanchezza causata dal viaggio, ero vogliosa di fare un giro ad Atene. Mi sono ritrovata in una piazza del centro, poco lontano dall’Acropoli, che è tutta un turbinio di negozi e ristoranti per turisti. L’atmosfera, nonostante la centralità del posto, era rilassata e calma, e questo mi è piaciuto molto. Si respiravano chiaramente gli odori dei fiori. La natura sbocciava.
Atene mi piace più di quanto mi aspettassi. Domattina l’appuntamento è alle 10 al centro di LSWB per l’attività che chiamano “kindgertaten”, ovvero una sorta di asilo per bambini di massimo tre anni e mezzo. Nel primo pomeriggio ci sarà un’altra attività dalla durata di un paio d’ore e avrò anche modo di parlare con calma con Maria, di conoscere la sua storia e scoprire come è arrivata a fondare LSWB.
15 aprile 2022
Sono nell’edificio dove LSWB svolge il kindergarten. Ora i bambini stanno dormendo (è dopo pranzo) e Davide, il volontario italiano, e Rohey, la donna che aiuta Maria a occuparsi dei bambini piccoli, sono qui con me. Sediamo nella stanza dove i bambini hanno fatto il pranzo e infatti ci sono ancora piattini colorati, piccoli zaini, yogurt eccetera. Rohey comincia a raccontare la sua storia. Ogni volta in cui chiedo a una persona se se la sente di raccontarmi la sua storia le spiego perché lo faccio e tutte sono vogliose di raccontarsi anche se è evidente che farà male, ma credo che a smuovere tutti sia la voglia di far sapere al mondo come vanno davvero le cose, ciò che hanno dovuto subire, le difficoltà che ancora devono affrontare. Forse la vedono come (un’illusoria) possibilità di riscatto, non so, ma per me è davvero un onore quando mi aprono cuore e anima. Parlare con persone che hanno vissuto determinate situazioni non è facile e ci metto sempre tutto il tatto possibile, ma sembra che non ci siano limiti a ciò che vogliono raccontare. Ho la sensazione che si sentano così invisibili che solo la possibilità di dire la loro e di raccontare chi sono, come hanno vissuto e come vivono ora sia un qualcosa di più importante di quanto noi potremmo mai capire.
Rohey è originaria del Gambia. Le racconto di M., un mio amico di penna, anche se in realtà ci sentiamo via e-mail, con il quale ormai comunico da diversi anni e che vive proprio in Gambia, in un villaggio molto povero, orfano di genitori e abita con la vecchia zia e la sorella che ha diciassette anni e non va a scuola. Lui ha circa 24 anni. “Nel mio Paese da sempre c’è una sorta di guerra” racconta Rohey, “E diciamo sempre, ‘Non buttateci bombe addosso, siamo un piccolo Paese, se ci bombardate moriamo tutti’”. La madre è originaria di un villaggio che a lei piace molto, dove la natura la fa da padrona, e dove vivono delle persone molto semplici. Prima d’incontrare il padre di Rohey, la madre ha avuto figli con un altro uomo. Quest’uomo era un cristiano, come lei. Il padre di Rohey è del Mali. L’uomo voleva che lei sposasse un uomo molto più vecchio ma a Rohey questo non andava bene. Rohey adesso ha ventiquattro anni. Il padre l’ha tolta da scuola e la costringeva a stare chiusa in casa e pregare. A volte, l’uomo lavava la tavoletta su cui scriveva le preghiere e la costringeva a bere quell’acqua schiumosa. “Io lo facevo, volevo che capisse che avrebbe potuto farmi di tutto e non sarebbe mai riuscito a spezzare il mio spirito” racconta Rohey.
In Gambia, Rohey aveva molti amici cristiani e anche il suo fidanzato era cristiano. Il padre è musulmano e non voleva che lei avesse un fidanzato cristiano e in più voleva che Rohey sposasse quell’uomo anziano, un amico di famiglia. Rohey ha provato a scappare diverse volte – “sono molto testarda, scavalcavo la rete” – il padre la ritrovava sempre e la riportava indietro. A volte faceva delle domande agli amici della ragazza, arrivando a minacciarli, così questi cedevano e gli raccontavano di dove fosse andata. Alcune volte Rohey è scappata al villaggio della madre, perché lì sono tutti cristiani. Suo padre ha sposato sua madre semplicemente perché lei era incinta. Ora, quando torna in Gambia, Rohey è obbligata a vedere il padre e ancora adesso lui non le concede alcuna libertà di movimento. Se per esempio lei deve andare al negozio, il padre le ordina di farsi accompagnare da una sorella. Rohey ha deciso di lasciare il Gambia per scappare da quella vita che non riusciva a tollerare. “Ero stressata, in più mi sentivo male ma nessuno capiva perché. Sono andata anche al villaggio di mia madre, dove c’è un ospedale militare, avevo dei forti mal di testa causati dallo stress e quindi sono dovuta andare via”.
Un giorno suo padre le ha detto, “Questo matrimonio va fatto” e così l’unica opzione, per Rohey, è stata fuggire. Una sua amica le aveva parlato di una persona che poteva procurarle un visto per l’Iran e così Rohey si è rivolta a quest’individuo e il suo passaporto è stato mandato a “non so chi” e in un mese ha ricevuto il visto. Rohey ha pagato il biglietto per il viaggio con dei soldi che aveva messo da parte e anche con il contributo economico del fidanzato. La loro relazione era segreta. Lei e altre persone hanno viaggiato sino a Dubai per poi spostarsi in Iran, dove Rohey ha incontrato gente proveniente da diversi Paesi in attesa di entrare, “Poi ci hanno mandati in Turchia. Abbiamo dovuto camminare tutta la notte, mi sentivo male, avevo come la nausea e ho pensato che sarei morta lì”.
“Siamo arrivati alla frontiera, lì c’era la polizia e, da dove eravamo nascosti noi, potevamo vedere gli agenti ma loro non potevano vedere noi. La polizia sapeva che qualcosa stava accadendo sulle montagne, ma non aveva idea di cosa si trattasse di preciso. Abbiamo aspettato un’altra notte, poi la polizia se n’è andata e noi abbiamo attraversato. Il contatto che avevamo per farci passare ci ha detto “ora potete attraversare” ma io stavo male, faticavo a respirare. Non lo sapevo ancora, ma ero incinta. Non me la sentivo di camminare. Eravamo suddivisi in tre gruppi, A, B e C ed io ero nel gruppo B. Avrei dovuto correre. La polizia ci ha presi, tutti i miei amici sono stati portati in prigione. Io aspettavo insieme a un ragazzo, eravamo rimasti solo noi due nel gruppo, e lui ha cercato di violentarmi. Ho ancora le ferite di quel tentato stupro (mi fa vedere delle piccole ferite, marrone chiaro sulla pelle delle braccia e mi dice che le ha anche sulle gambe). Queste ferite sono il segno di quella lotta mentre cercavo di liberarmi da lui. Ora stanno migliorando. I soldati al confine sparavano, questo è successo dopo che la polizia ha preso gli altri, e quegli spari hanno fatto scappare il ragazzo che avrebbe voluto stuprarmi. Ho deciso di non andare con lui e, una volta cessati gli spari, ho attraversato la frontiera cercando di fare attenzione e mi sono fatta un po’ male. Alcune delle ferite sono state causate anche da quel mio attraversamento della frontiera. Non conoscevo nessuno. I soldati mi hanno chiesto, “Con chi sei?”, “Sei sola?” ed io ho risposto di sì e loro mi hanno aiutata. Hanno chiamato un dottore e hanno detto “sei incinta” ma io non ci credevo. Mi hanno fatta distendere lì, in uno dei container, e in ospedale poi hanno confermato la gravidanza. Ho conosciuto persone provenienti dalla Siria e dall’Afghanistan, ma poi queste se ne sono andate a Istanbul

Io ero stanca ma avevo un’amica a Istanbul. I militari volevano saperne di più su cosa succedeva sulle montagne e allora ho spiegato di come ci fossero donne con i figli che cercavano di attraversare la frontiera e ho aggiunto, “quindi dovete stare più attenti quando sparate”. Loro mi hanno accompagnata alla stazione degli autobus e mi hanno dato un foglio che mi avrebbe permesso di andare a Istanbul. Mi sono seduta là, sapevo che avrei dovuto pagare per il biglietto dell’autobus ma non avevo più neanche un soldo con me. Il costo del biglietto sarebbe stato circa 100 lire turche (approssimativamente 6,32 Euro) ma, non avendo denaro con me, sono scoppiata a piangere. Un uomo, che era andato lì per accompagnare qualcun altro, mi ha vista piangere e mi ha spiegato che sarei dovuta rimanere lì perché in ogni caso l’autobus era pieno e che avrei dovuto prenderne uno l’indomani. Si è offerto di ospitarmi a casa sua ma io non riuscivo a fidarmi, e gliel’ho detto. Lui mi ha spiegato di avere moglie e figli, al che ho risposto, “non conosco neanche loro”. L’uomo allora mi ha detto che sarebbe tornato domani e mi avrebbe portato i soldi necessari perché potessi comprare il biglietto. Il giorno seguente è effettivamente tornato con il denaro, quindi sono potuta partire. Sono andata a stare con la mia amica a Istanbul ma, non avendo i fogli necessari per accedere alla sanità pubblica, sarei dovuta andare da un dottore privato per via della gravidanza. Un medico della Nigeria mi ha chiesto, “Vuoi tenere il bambino?” ed io ho risposto di sì, perché non volevo sacrificare un piccolo innocente. Il fatto era che avevo delle perdite e il dottore mi ha dato delle medicine dicendomi che, se queste non avessero risolto il problema in tre giorni, non ci sarebbe stato niente da fare per il bambino. Per fortuna le medicine hanno fatto il loro dovere. Sono rimasta in Turchia per qualche mese, ho cercato lavoro ma, essendo incinta, non ho trovato niente. La mia amica mi ha detto “se partorisci qui ti tengono in ospedale perché non hai i soldi per pagare mentre se vai in Grecia i rifugiati, sotto l’Unione Europea, non pagano l’ospedale” e così sono partita per la Grecia. Mia madre mi ha detto, “Sei incinta di un cristiano, non lo deve sapere nessuno, altrimenti tuo padre andrà fuori di testa” al che io ho risposto, “Ma tu devi aiutarmi, sono pur sempre tua figlia”. Mia madre ha accettato di aiutarmi, pagando perché potessi andare in Grecia, una cifra di circa 200 Euro. Sono arrivata in Grecia nel 2018. Sono stata per un po’ al campo profughi di Moria. Un paio di mesi dopo la nascita, mio figlio ha avuto gravi problemi di salute e hanno dovuto portarlo ad Atene per curarlo al meglio, c’era il rischio che non ce la facesse. Non appena io mi sono ripresa, mi è stato detto che avrei dovuto raggiungerlo ad Atene. Quando ero lontana da lui, pregavo ogni giorno perché stesse meglio e piangevo ogni notte perché ne sentivo la mancanza. Tutto quello che mi accadrà da ora in poi sarà qualcosa che riuscirò, in qualche modo, ad affrontare perché so di essere riuscita a sopravvivere davvero a molte difficoltà”.
“Quando mio padre morirà, potrò tornare al mio Paese serenamente.”
So da M. che sua sorella è stata sottoposta alla mutilazione genitale femminile, per questo pongo chiedo informazioni al riguardo a Rohey. “Molte ragazze scappano dal Gambia per questo motivo, per evitare la mutilazione” racconta lei, “Conosco molte donne, qui ad Atene, che sono fuggite proprio per questa ragione. Molte donne in Gambia subiscono ancora la circoncisione, e di solito avviene di nascosto. Per fortuna, a me quel destino non è toccato. Se una donna o una ragazza va dalla polizia per dire che non vuole essere mutilata nei genitali, gli agenti le dicono che fa parte della tradizione del suo Paese, e pertanto dev’essere mutilata. La gran parte delle donne che partorisce nel mio Paese ha dei problemi al momento del parto, e quasi tutte queste donne hanno subìto la circoncisione. Molte di loro muoiono. Spesso gli ospedali non hanno sangue disponibile quando ne servirebbe per delle trasfusioni. In Gambia tutto questo sta ancora accadendo, ovvero che molte donne muoiono per complicazioni che si presentano al momento del parto e che sono legate alla circoncisione. Molte donne hanno paura di spostarsi. Il villaggio di mia madre è governato dal Senegal. Se fossi rimasta incinta in Gambia sarei andata nel villaggio di mia madre perché lì offrono dei trattamenti migliori. Pensiamoci bene, com’è possibile che in un grande ospitale si senta ancora pronunciare la frase “non c’è sangue disponibile”? Questo non dovrebbe succedere. Dobbiamo combattere per i diritti umani ma se lo fai nel mio Paese ti scontri con la corruzione. Ora molte persone del Gambia parlano su Facebook di quello che sta accadendo alle donne nel Paese, specialmente a coloro che hanno subìto la circoncisione. Durante le ultime elezioni, quelle di dicembre, le persone avrebbero voluto eliminare il Presidente invece è stato rieletto e siede lì senza fare niente. Il mio Paese non ha soltanto aspetti negativi, è anche molto bello. Non conosciamo la fame. C’è così tanto pesce che ci basta pescarlo dall’oceano ed è tutto molto buono. Facciamo spesso delle feste.
Se non avessi il problema di mio padre, non rimarrei qui in Grecia, ma lui è ancora vivo e di conseguenza sono qui”.
Le chiedo che cosa vuole fare nel suo futuro e lei risponde, “Vorrei aprire un business, qualcosa legato al mondo dell’estetica, che abbia a che fare con trucco e capelli. Sono stata costretta a smettere di studiare al 9th grade perché avrei dovuto sposare quell’uomo più anziano di me. Se c’è una cosa sicura, è che io non tratterò mai male mio figlio, perché so cosa significa essere trattata male da un genitore.”
“Per chiedere i documenti ho dovuto raccontare la mia storia così tante volte” continua Rohey, gli occhi che nascondono, senza riuscirci troppo bene, tutte le emozioni che ognuna delle parole che pronuncia fa tornare in superficie, “Mi hanno sempre rifiutato lo status di rifugiata. L’unico motivo per cui sono venuta qui è che in Turchia avrei dovuto sostenere le spese dell’ospedale, e non potevo permettermelo. Non c’è un Paese particolare in cui vorrei andare, ogni posto in cui c’è la pace per me va bene. Posso rimanere qui in Grecia. Ho pregato perché mio padre muoia così da poter tornare a casa. Adesso ho un figlio che ho avuto da un cristiano. A volte mi sveglio di notte e scoppio a piangere, ma non voglio che mio figlio se ne accorga. Devo controllare le mie emozioni per evitare che mi vengano le mie emicranie, o che queste peggiorino, e che lo stress mi uccida. Non posso morire ora, mio figlio non conosce nessuno qui, conosce poco anche mia madre, e nessun altro della famiglia. Devo rimanere forte per lui.”
Le chiedo se si è mai rivolta a uno psicologo per cercare del supporto ma lei mi guarda stranita e dice, “No, quando sto male ballo, rido, non penso che uno psicologo mi aiuterebbe. La vita non è facile. Molte persone si lamentano per delle sciocchezze e mi viene da pensare che quello per cui si lamentano in realtà non è neanche un vero problema.”
Rohey sta ancora aspettando una risposta per sapere se ha ottenuto o meno lo status di rifugiata. “Questa è l’ultima volta in cui racconterò la mia storia. Ogni volta in cui mi chiedono di farlo per stabilire se ho diritto a quei documenti, mi fanno domande, anche profonde, e per me è molto doloroso.”
Prendo questa responsabilità per quello che è, ovvero un onore. Forse Rohey sarà costretta a raccontare altre volte la sua storia, malgrado desideri il contrario, o forse questa è davvero l’ultima volta in cui queste parole usciranno dalle sue labbra. Poi, nessuno saprà più cos’è successo a quella ragazzina del Gambia, che avrebbe voluto solamente vivere nel suo amato Paese, con una famiglia serena, a ballare, mangiare pesce e godersi la natura. La ringrazio per la fiducia che mi ha accordato e sento che fra noi si crea un momento speciale. Le dico la verità ovvero che penso di essere una persona molto empatica e posso quindi immaginare cosa può aver passato, ma che fra immaginare e vivere davvero certe situazioni ovviamente c’è una grossa differenza. Ogni volta che parlo con persone come Rohey mi sento benedetta per il percorso di vita che ho vissuto. Anche io ho dovuto affrontare delle difficoltà, questo succede a tutti, ma niente se paragonato a ciò che ha dovuto sopportare e subire Rohey. A guardarla, così energica e “grande”, non penseresti che si tratta di una giovane donna di appena ventiquattro anni, che noi in Italia definiremmo senza esitazione “una ragazza”. Non riesco a fare a meno di pensare che una sua coetanea italiana si è appena laureata o sta per laurearsi, magari vive ancora con i genitori, oppure ha un lavoretto per pagarsi gli studi, nel fine-settimana va al cinema con le amiche o a cena fuori con il fidanzato, fa dei progetti per una convivenza, pianifica viaggi, uscite, aperitivi, pomeriggi di shopping… Rohey, come tutte le persone che ho incontrato qui ad Atene, dimostra molto più dei suoi anni. È una saggezza che le è venuta fuori a causa di quello che ha dovuto vivere, perché è cresciuta molto più in fretta di quanto non avrebbe dovuto, e che dall’interno l’ha plasmata anche all’esterno. I suoi modi, il suo volto, tutto in lei fa pensare a una donna di almeno cinquant’anni, che ha già vissuto un certo numero di esperienze nella vita.
Riferendosi alle persone a cui deve raccontare la sua storia perché decidano se darle lo status di rifugiata o meno, direbbe, “Fate quello che volete ma non rimandatemi al mio Paese. Non vi racconterò ancora una volta la mia storia, mi avete fatto domande approfondite, sono stanca di spiegare sempre le stesse cose. Voi dite che dovete sapere in dettaglio, ma ho l’impressione che giochiate con me”.
Uscita dall’edificio dove ho parlato con Rohey sono ancora scossa. Attraverso la strada ed entro nella sede principale di LSWB, dove mi aspetta Maria. Per accedere al suo ufficio si scendono dalle scale e ci ritroviamo in quell’ambiente fresco, il piccolo, grande regno di Maria dove, armata di telefono e computer, lei manda avanti l’intera organizzazione. Le chiedo se ha piacere di raccontarmi la sua storia. Maria ha un sorriso bellissimo, e non lo dico tanto per dire. Quando sorride, non solo la parte inferiore del suo viso sembra come accendersi, ma quella luce si espande fino agli occhi. Penso che sia leggermente nervosa all’idea di parlare e cerco di metterla a suo agio. Le dico che non deve dirmi niente che non vuole, che può raccontare liberamente, che ho sentito parlare tanto bene di lei ma anche che intuisco che la sua storia, come quelle di tutte le persone che sto conoscendo qua a LSWB, è segnata da episodi di profondo dolore e spesso di violenza, e che capisco se ci sono passaggi di cui non vuole parlare.
Maria comincia a raccontare, “Il mio vero nome è Rosemay, ma qui tutti mi chiamano Maria perché per i greci quel nome è più facile da pronunciare. Mio marito è stato il primo della famiglia a trasferirsi qui in Grecia mentre io sono rimasta in Kenya, il mio Paese natale, con i nostri figli. In Africa ci sono molti problemi, per questo mio marito decise di venire in Europa, in cerca di una vita migliore. Era difficile per noi essere così lontani, la nostra famiglia era come tagliata in due, da una parte mio marito che viveva in Grecia e dall’altra i bambini ed io, rimasti in Kenya. Lui è venuto qui in Grecia nel 2006 e dopo quattro anni anche i bambini ed io ci siamo trasferiti qui. Finalmente potevamo vivere assieme, come una famiglia, e questo ci rendeva molto felici. Avevamo grandi sogni perché pensavamo che qui tutto sarebbe stato possibile ma tre mesi dopo l’arrivo mio e dei bambini, una sera mio marito è tornato a casa dal lavoro dicendo che si sentiva poco bene, è stato portato in ospedale ed è morto. Ero rimasta da sola, in un Paese straniero, con dei bambini da crescere. Non sapevo bene il greco ma conoscevo l’inglese. Avevamo venduto tutto in Africa, non avevo un lavoro fisso qui in Grecia, pertanto la vita era difficile. Non avevo altra scelta se non rimanere qui perché, come ho accennato, avevamo venduto ogni cosa in Kenya. I miei figli erano piccoli, avevano meno di quindici anni, ed io mi sono messa a cercare lavoro. Uno dei miei figli era un ragazzino di tredici anni, l’altro un bambino di nove. Ho trovato lavoro come babysitter e l’ho fatto per molto tempo. Un giorno, proprio di rientro dal lavoro, alla stazione ho visto alcune persone, africane come me, che dormivano all’addiaccio. Mi sono chiesa come poter aiutare i miei connazionali che vivevano in quelle condizioni così terribili. La mia casa era piccola, ma li ho accolti. Ho continuato a farlo per due, forse tre anni. Guadagnavo abbastanza per pagare l’affitto e le bollette ma la vita non era comunque facile. Come cristiana ero furiosa con Dio perché non capivo come mai mi avesse messo davanti tante gravi difficoltà, ma allo stesso tempo volevo saperne di più su di Lui, così mi sono iscritta alla Scuola Internazionale di Bibbia, che si teneva la domenica, durante la quale studiavamo. Quindi, frequentavo quella scuola e intanto continuavo a lavorare e a occuparmi dei miei figli nonché dei senzatetto africani. Un giorno, mentre il mio insegnante alla Scuola Internazionale di Bibbia, parlava dell’amore, sono scoppiata a piangere e lui me ne ha chiesto il motivo, allora ho spiegato tutto quello che mi era successo e ho chiesto perché, se Dio è amore, ci accolla la responsabilità di prenderci cura di altre persone quando la nostra stessa vita va a rotoli. Lui mi ha detto che mi avrebbe supportata nell’aiutare i senzatetto africani e ha aggiunto che lo stesso avrebbe fatto Dio. Egli iniziò a portare cibo per queste persone a casa mia, e abbiamo continuato così fino al 2015. Un giorno, ho visto tante persone provenienti dal Medio Oriente, che a loro volta vivevano per strada. Fra loro c’era un ragazzino che parlava un inglese sufficientemente buono da potermi spiegare cos’era successo. C’erano bambini scalzi, vestiti di stracci leggeri nonostante facesse molto freddo. Il ragazzino mi ha spiegato che nel loro Paese c’era la guerra e, una volta tornata a casa, ho detto a mio figlio che d’ora in poi non avremmo aiutato solo gli africani ma persone provenienti da ogni Paese. Abbiamo cominciato a preparare del cibo da portare a queste persone. Lo consegnavamo a coloro che vivevano a Victoria Square, portavamo spaghetti o tè, per nutrire queste persone. Presto il loro numero cominciò ad aumentare molto, tanto che noi non avevamo più cibo per nutrire tutti, e abbiamo deciso di dare da mangiare solo a donne e bambini. Un uomo, però, si era intrufolato nella fila dicendo che era disperato e che aveva un figlio malato. Mio figlio l’ha seguito e ha scoperto che quell’uomo non aveva alcun bambino malato, era semplicemente molto affamato e aveva dovuto mentire per avere anche lui qualcosa da mangiare. Da allora, abbiamo preso la decisione di dare da mangiare a tutti, non solo alle donne e ai bambini, perché anche gli uomini giustamente devono nutrirsi, il problema però era che non sapevamo come mettere insieme del cibo sufficiente a sfamare tutte quelle persone. Mio figlio ha avuto l’idea di aprire un gruppo su Facebook e le persone originarie del Kenya hanno cominciato a contattarci per aiutarci, cucinavamo il cibo e poi lo distribuivamo alle persone che ne avevano bisogno. Lo portavamo anche nei campi profughi perché allora non c’erano restrizioni. Abbiamo proseguito così fino al 2017, facendo tante attività che hanno aiutato numerose persone. Dopo aver conseguito il diploma presso la Scuola Internazionale di Bibbia il mio insegnante mi ha detto, “Rosemary, vedo la fatica che fai nel portare avanti questo progetto e voglio aiutarti”. Abbiamo cercato un posto, invece di casa mia, che potesse ospitare queste persone e così abbiamo aperto Love and Serve Withour Boundaries. Ho smesso di lavorare come baby-sitter e, grazie al contributo economico del mio insegnante, posso lavorare qui a tempo pieno. Le persone venivano, chiedevano tante cose e ho capito che distribuire cibo era solo una parte di ciò che avremmo dovuto fare, perché i bisogni erano molti. Avrei voluto fare di più ma non volevo chiedere altro aiuto a chi già aveva scelto di supportarmi così mio figlio ed io abbiamo deciso di aprire una sorta di scuola per insegnare il greco alle persone, perché ovviamente è necessario affinché possano integrarsi qui, e anche l’inglese. È stato proprio grazie all’inglese che io ho potuto trovare lavoro come baby-sitter. A quei tempi avevamo solo questo edificio, io insegnavo in una classe e mio figlio nell’altra. Avevamo oltre cento studenti, abbiamo anche avuto degli insegnanti dall’estero, che erano venuti a sapere di noi grazie a Facebook. Questa non è una scuola riconosciuta ma offre alle persone la possibilità d’imparare. Mio figlio lavorava e gli dissi che era arrivato il momento che anche lui contribuisse al progetto con circa 100 Euro il mese. Io stessa toglievo dei soldi dalla mia paga per mandare avanti LSWB. Abbiamo affittato delle stanze in un edificio qui vicino e abbiamo cominciato ad accogliere volontari dall’estero, che non solo ci aiutano con le varie attività ma che, con il contributo economico, ci permettono anche di mantenere aperto LSWB, e nello specifico di pagare l’affitto per le stanze nell’altro edificio. All’inizio ci occupavamo di aiutare principalmente persone dal Medio Oriente ma due o tre anni fa sono arrivate anche persone dai Paesi africani, li vedevo come una parte di me e ho detto loro che avrebbero dovuto darsi daffare per trovare un lavoro. Molti mi hanno detto che lo avrebbero fatto volentieri ma che avevano dei figli piccoli che non sapevano dove mandare, e così mi è venuta l’idea di aprire una specie di asilo, che ora mando avanti grazie all’aiuto dei volontari. Quando i genitori trovano lavoro, pagano 5 Euro il giorno per sostenere le spese dell’asilo. Durante il lock-down, ho dovuto pagare ugualmente l’affitto per non perdere gli spazi che avevo trovato. Love and Serve Without Boundaries oggi aiuta greci in difficoltà, profughi e rifugiati e facciamo varie attività come workshops, la distribuzione del cibo, l’insegnamento dell’inglese, l’asilo per i più piccoli…

18 aprile 2022
Ore 23, sono in hotel. Nel week-end LSWB è chiuso quindi ieri e oggi ho avuto modo di visitare un po’ Atene, città in cui non ero mai stata e che non avrei scelto spontaneamente come meta di un viaggio, ma che reputo molto più bella e interessante di quanto pensassi. Ieri ho visitato l’Acropoli e nel pomeriggio, dopo una breve pausa ai National Gardens, sono salita su una collina di cui non ricordo il nome, il punto più alto di Atene che infatti offre una magnifica vista sulla città, fino al mare. Ieri faceva davvero molto caldo mentre oggi ha piovuto ininterrottamente per tutto il giorno e fa più freddo. Sembra quasi inverno. Ho visitato il museo dell’Acropoli, nonostante non sia particolarmente appassionata di musei, ma con quel clima volevo stare all’interno. Anche quello è stata una piacevole sorpresa, perché il museo mi è piaciuto molto, e penso sia necessario visitarlo prima o dopo la visita all’Acropoli. Mi ha colpito particolarmente come ci siano diversi riferimenti, fra cui filmati, a numerose parti (per esempio statue) dell’Acropoli che nei secoli scorsi sono state portate via (leggi: rubate) da un inglese e da un francese che avevano soldi e potere e hanno corrotto chi di dovere per portare questi reperti nei loro Paesi. A oggi, queste opere sono esposte al British Museum e al museo del Louvre. Anche un italiano ha fatto lo stesso tentativo ma ha fallito. Queste informazioni mi hanno lasciato allibita, perché nel filmato era chiaramente mostrato come questi uomini abbiano deciso d’impossessarsi di qualcosa che non apparteneva a loro bensì a un’altra cultura e società, solo perché avevano il potere, i soldi e le conoscenze per farlo. Tra l’altro, alcune di queste opere erano piuttosto pesanti e ingombranti, impossibile farle scendere da dov’erano posizionate e trasportarle fuori dall’Acropoli con i mezzi di quei tempi, per non parlare dei viaggi in nave, e allora ecco che pensavano bene di alleggerirle praticamente spaccandole, togliendo delle parti e via dicendo. Uno scempio. Personalmente, penso che i due musei di cui sopra dovrebbero vergognarsi di possedere queste opere e dovrebbero riportarle ad Atene, perché qui dovrebbero trovarsi. Questo episodio altro non è che l’ennesima dimostrazione di come la maggior parte delle persone potenti e ricche voglia semplicemente arraffare, incurante di portare via ciò che non spetta loro.
Domani nel pomeriggio andrò alla sede di LSWB dove si terranno delle lezioni d’inglese per adolescenti e adulti di vari livelli e avrò modo di parlare con altre persone. Venerdì notte ho sognato brandelli della storia di Rohey, non mi era capitato neanche dopo il campo in Turchia, forse questa mi ha colpito particolarmente perché Rohey parla l’inglese e quindi abbiamo conversato senza bisogno di un interprete, ed è stata lei a raccontarmi direttamente la sua storia.
Oggi è Pasqua. Qui celebrano la Pasqua Ortodossa, che sarà festeggiata la prossima domenica (24 aprile).
18 aprile 2022
Sono al quarto piano del secondo edificio, quello dove LSWB ha le stanze che usa per alcune delle attività. Prima, nell’edificio centrale, sono arrivata mentre il volontario britannico insegnava inglese ai bambini. Come succede spesso in casi di scuole non riconosciute come questa, c’erano ragazzine sui nove anni e bambini di cinque, che studiavano tutti le stesse cose. Naturalmente, come mi ha detto anche uno dei volontari, non è semplice gestire una classe non omogenea per età perché certi esercizi o determinate spiegazioni possono risultare interessanti, per esempio, per i più grandi e noiose per i più piccoli, o viceversa. Comunque, questo va sottolineato, le classi offerte da LSWB sono fondamentali e tutti sono entusiasti di frequentarle. Verso le 17 sono venuta qui. Durante questa lezione, che ancora non è cominciata, ci sarà solo un’allieva, Y., quattordici anni e mezzo, originaria di Kabul (Afghanistan). Ci sediamo e le chiedo se ha voglia di raccontarmi la sua storia. Come sempre, le spiego perché vorrei saperla e condividerla e lei accetta.
“Voglio migliorare sempre di più in inglese” dice Y. “Vorrei apprendere sempre di più, ma è difficile. Vivo qui da tre anni, frequento la scuola greca (le chiedo se è possibile farlo senza documenti e lei risponde di sì), so parlare bene il greco. Sono fuggita dall’Afghanistan per via dei combattimenti dei Talebani. La mia famiglia ed io non avevamo preparato niente per la fuga, siamo semplicemente andati in Iran, dove sono nata, poi siamo tornati in Afghanistan. Da lì siamo poi andati in Turchia e, infine, siamo venuti qui in Grecia. Abbiamo vissuto per otto mesi nel campo profughi a Samos. Le principali difficoltà al campo erano la sporcizia e il fatto che mia madre fosse incinta. Per via della gravidanza, lei non stava molto bene e per questo siamo tornati a casa per circa tre mesi. Quello è stato un bel periodo ma abbiamo avuto nuovamente dei problemi e quindi siamo andati ad Atene. I primi mesi qua in città sono stati difficili ma poi mio padre ha trovato lavoro ed io ho cominciato a frequentare la scuola e le cose sono migliorate.
Ci hanno intervistati per via dei documenti d’identità e ora dalla Grecia non vogliono darci i passaporti. Abbiamo fatto domanda due volte, e due volte abbiamo ricevuto un rifiuto. Se anche la terza volta ci porterà, come risultato, un “no”, andremo a provare in un altro Paese.”
Le chiedo se fuggire da un Paese come l’Afghanistan, e desiderare di rimanerci lontano (solo perché al momento la situazione è molto instabile), non dovrebbe essere sufficiente per ottenere i documenti d’identità e lei alza le spalle.
“Quando stavamo in Afghanistan ero molto piccola” continua Y., “andavo a scuola ma poi, per via dei Talebani, siamo dovuti fuggire. Se, come stavo dicendo, anche la terza domanda sarà infruttuosa, allora proveremo in Italia, in Germania o in qualsiasi altra nazione europea. È possibile che dovremo tentare varie volte, cambiando Paese dopo Paese, ma non vorrei ricevere il terzo “no”, vorrei rimanere qui in Grecia. La cosa più difficile di vivere fuori dal tuo Paese è che ti manca la famiglia. Io qui sono con i miei genitori, mia sorella e mio fratello ma mi manca la mia famiglia allargata, i nonni, gli zii… Il mio piano è quello di studiare qui e poi tornare in Afghanistan e viverci per sempre”.
Poco prima che inizi la lezione arriva un’altra ragazza, il volontario britannico le spiega chi sono, la ragazza ed io ci scambiamo i saluti, qualche parola e le spiego perché sono qui. Le racconto della possibilità che ha di condividere la sua storia specificando, come faccio sempre, che non è certo un obbligo e che è liberissima di rifiutarsi. Lei però è entusiasta, specialmente quando scopre che Y., la sua amica, l’ha appena fatto. “Allora lei mi può raccomandare” dico scherzosamente. Queste due ragazze sembrano, oserei dire sono, molto più mature della loro età. Parlando con Y. ho avuto l’impressione di star conversando con una donna della mia età o addirittura più grande ma non appena parlo con aria leggera, quasi scanzonata, buttando lì come non succede niente di brutto a dire la propria storia, “vero, Y.?” e lei ride e dice “no, no, anzi mi è piaciuto” e si crea quell’atmosfera scherzosa che tante volte in passato ho creato interagendo con gli adolescenti. La ragazza appena arrivata, proveniente dall’Iraq, accetta di raccontarmi la sua storia. Il volontario, che è anche l’insegnante di questa classe, dice: “Bene, allora voi due potete andare nell’altra stanza ed io comincerò la lezione con Y.” e la ragazza irachena esclama, “No, te la racconterò dopo la mia storia, ora voglio studiare!”. Ovviamente per me non è un problema. È un’emozione strana vedere la miccia negli occhi di queste ragazze, quanta speranza ripongono in queste lezioni, quanto s’impegnino per guadagnarsi un futuro migliore. È una grande fonte d’ispirazione ma a pensarci bene mette anche rabbia e tristezza perché tutto questo fuoco dentro nasce dalla consapevolezza che queste classi sono davvero importanti per loro, data la vita che hanno. Mentre il volontario insegna alle due ragazze vado al supermercato a comprare qualcosa per cena. Ho pianificato di cenare in hotel con un panino o qualcosa di simile perché domattina dovrò svegliarmi alle cinque, avendo il volo che decollerà alle 8.30.
Quando rientro, la lezione è finita e ho modo di parlare con la ragazza irachena, che si chiama A. Y. rimane con lei, ma prima le dice, “Solo se vuoi, se la mia presenza non ti mette a disagio”. A. risponde che non c’è problema, anzi, le fa piacere che lei rimanga. A. mi dice di avere quindici anni e mezzo e di essere originaria, appunto, dell’Iraq. “Ci sono molti problemi in tanti Paesi musulmani come l’Iraq, la Siria, la Palestina ed è per via degli Stati Uniti che vogliono uccidere i musulmani perché non gli piacciamo. L’America vuole prendere il gas, il petrolio, da Paesi come Iraq e Afghanistan. In realtà sta rubando. La vita qui in Europa non è semplice. Nel mio Paese era diverso, per esempio se non hai soldi in Iraq trovi qualcuno che ti aiuta, che ti dà qualche banconota o degli spiccioli, mentre in Europa questo non succede. Siamo venuti qui per essere al sicuro per via del terrorismo. Vogliamo la pace. Gli Stati Uniti dicono che ogni musulmano è un terrorista ma non è così, sono loro che odiano i musulmani. Ci sono Paesi che non accettano la nostra religione, ma noi non vogliamo essere costretti a cambiarla. In Iraq ci sono tante famiglie povere. Ci sono arabi, armeni, curdi, tutti… per questo ci sono tante situazioni difficili. Molte famiglie non hanno soldi per comprare il pane o l’acqua, così come in Siria. Molti bambini non vanno a scuola ma lavorano. In Siria molti muoiono per via della guerra, le case vengono distrutte come se niente fosse, mentre in Afghanistan ci sono i Talebani. Per questo motivo, le donne e le ragazze non possono fare niente. Per esempio, non possono lavorare in pubblico. Voglio la libertà per l’Iraq, l’Afghanistan, la Siria, lo Yemen, la Tunisia e tutti i Paesi musulmani. Molte persone scappano da questi Paesi per cercare la pace in Europa, per sentirsi al sicuro. Vogliamo studiare e lavorare. In Grecia ci sono molti rifugiati e tanti di loro sono poveri e senzatetto. Io sono ad Atene da tre, quattro anni. Sono venuta qui dall’Iraq a piedi, abbiamo impiegato circa dieci giorni perché c’erano i combattimenti. Nel nostro Paese non eravamo molto ricchi, c’impegnavamo nello studio ma nessuno ci dava niente. Studiavamo duramente, ma per cosa? Molte persone non hanno neanche i soldi per comprarsi di che mangiare. Qua in Europa cerchiamo la libertà. Non vogliamo problemi, ma la pace. Ogni donna musulmana vuole la pace. Alcune persone pensano che veniamo qui per i soldi, per ottenere una vita migliore dal punto di vista economico, ma non è così. Nel nostro Paese davvero ci sono i combattimenti e poi qui possiamo studiare e, una volta finiti gli studi, possiamo sperare di costruirci un futuro. Vorrei tanto tornare in Iraq, il mio Paese mi manca molto, è bellissimo, ma ancora non posso tornarci. Forse, un giorno, Inshallah. A forza di parlare greco, sto dimenticando un po’ l’arabo. Vogliamo la libertà e la pace per ogni Paese musulmano. In quei Paesi non c’è la libertà, ci sono solo uccisioni. Afghanistan, Iraq, Iran… se le donne non portano lo hijab le uccidono. L’Iran è razzista/terrorista.
Voglio diventare un avvocato. Vorrei che questo mio sogno si realizzasse perché la gente possa rivolgersi a me in cerca di aiuto per i problemi personali. Non ho il passaporto, ho una carta che mi consente di spostarmi in Grecia e basta. VOGLIAMO LA PACE, solo questo”.
19 aprile 2022
La donna con cui mi appresto a parlare mi chiede di rimanere completamente anonima, omettendo anche il nome del suo Paese di origine, e ovviamente rispetto la sua volontà. Per comodità, la chiamerò B.
“Vengo da un Paese dell’Africa, è considerato buono se paragonato ad altri. Quantomeno non c’è la guerra. Io, così come molti altri, sono venuta qua in Grecia illegalmente. Intendo dire proprio barando. Nel mio Paese, quando hai finito le scuole superiori non hai possibilità di trovare un lavoro se non hai un padrino ricco e altolocato che può piazzarti da qualche parte. Le persone assumono solo tramite la loro cerchia di conoscenze o le raccomandazioni. Se non hai soldi e non conosci nessuno che abbia del potere e le giuste conoscenze, sei destinata a non lavorare mai. La corruzione è a livelli altissimi. Io avrei voluto lavorare, supportare la mia famiglia, ma non avrei potuto farlo nel mio Paese. Se, arrivata qui, avessi detto la verità, ovvero che avevo deciso di lasciare il mio Paese per cercare lavoro in Europa perché lì sarebbe stato impossibile, per me, trovarlo, mi avrebbero rimandata indietro. È così che funziona. Non stavo scappando dalla guerra ma la gente deve capire che ci sono tanti tipi di guerra. Quasi tutti, quando pensano alla guerra, immaginano le bombe, ma ci sono anche altri tipi di conflitti, quelli interni. Io stavo scappando da uno di quelli.”
Le dico che non la biasimo e che, se fossi stata lei, penso proprio che avrei fatto la stessa cosa. Non mi aspettavo questa testimonianza, che riporta a galla la domanda che mi sono posta tante volte in merito ai migranti economici. Un rifugiato è, per definizione, colui o colei che scappa dal proprio Paese a causa di guerre e/o persecuzioni, e cerca protezione altrove. Un migrante economico, invece, ha deciso di lasciare il proprio Paese d’origine per migliorare le proprie condizioni di vita. Non scappa necessariamente da guerre e/o persecuzioni, ma va in cerca di lavoro con l’obiettivo di migliorare la propria situazione economica.
Una parte di me pensa che sia necessario – se non giusto, quantomeno necessario – avere delle leggi che mettano una sorta di paletti su chi andiamo ad accogliere e perché. È logico pensare che una persona che fugge da una guerra e/o da persecuzioni debba essere protetta e accolta (anche se troppo spesso non succede) ed è necessario agire a questo modo, “selezionare” chi accettiamo di far entrare nel Paese, perché altrimenti, dati gli elevati numeri di persone che, per vari motivi, lasciano i propri Paesi, rischieremmo di non riuscire a gestire correttamente questa fiumana umana. Quindi, su carta, il discorso torna. All’atto pratico, però, se mi ascolto dentro sento che persone come B. avrebbero ogni diritto di essere ugualmente aiutate e supportate. Sono d’accordo con lei, ci sono tanti tipi di guerra. Io, per esempio, sono sempre stata una persona molto ambiziosa. Sin da piccola amavo la scrittura, e sapevo che avrei lottato per lavorare di questo. Se fossi nata nel Paese di B., nella sua stessa situazione, non avrei avuto modo di realizzare il mio sogno e neanche di trovare un mestiere qualsiasi per supportare me stessa e la mia famiglia. Avrei cercato un’occasione per andarmene? Sì. Avrei mentito, pur di raggiungere il mio scopo? Sì, visto che è necessario. Penso che la faccenda sia molto complessa e che in realtà, anche alla luce dei recenti fatti in Ucraina, che hanno acceso i riflettori sui diversi trattamenti che vengono riservati alle persone provenienti da questo o da quel Paese, bisognerebbe azzerare il sistema dell’accoglienza in Europa così com’è e riscriverlo daccapo. Io non sono un’esperta in materia, ma penso che chiunque abbia genuinamente a cuore il benessere di ogni singolo essere umano sia d’accordo nel dire che ognuno di noi ha il diritto non solo di sopravvivere ma anche di vivere al meglio la propria esistenza.
“Le Nazioni Unite rifiutano i casi di chi fa domanda e non scappa da guerre e/o persecuzioni, anche se conosco molte persone che, dopo qualche tentativo, ce l’hanno fatta. Nel mio Paese arrivavano molte famiglie di rifugiati scappate dai Paesi vicini. Per loro la vita lì era molto difficile, proprio per via della corruzione. Se una persona nata e cresciuta in quel Paese ma sprovvista di soldi o delle giuste conoscenze non riusciva a trovare lavoro, come poteva sperare di trovarlo qualcuno appena arrivato da un altro Paese? Conosco alcune famiglie della mia zona che hanno accolto queste persone e a loro veniva detto, ‘Siate consapevoli della vostra scelta, perché dovrete mantenere in toto questa gente’, proprio perché queste persone, anche se spesso lo desideravano, non avrebbero avuto modo di trovare un lavoro. Questo vale anche per i mestieri più semplici e umili. La vita nel mio Paese, anche se non c’è la guerra, è difficile, specialmente per le ragazze e per le donne. L’Europa è il continente dove possiamo vivere meglio perché, spostandoci nei Paesi vicini al nostro, avremmo comunque trovato la maggior parte delle persone in condizioni di difficoltà e avremmo faticato a trovare un lavoro. Molte persone arrivano qui in Grecia in cerca di un futuro migliore e poi impazziscono. Ne conosco tante che hanno perso il lume della ragione. È l’effetto dello stress continuo, della frustrazione. La vita qui non è semplice per molte persone provenienti da altri Paesi, quasi tutti riescono a ottenere i documenti, ma chi non ce la fa finisce in una spirale di frustrazione. Ci sono persone le cui richieste continuano a essere rifiutate. Mi ricordo di un ragazzo che aveva perso la ragione, era qui ad Atene da solo. Sono riuscita a contattare suo padre nel loro Paese, gli ho spiegato la situazione, gli ho detto che suo figlio aveva sviluppato gravi disturbi mentali e gli ho chiesto se avrebbe desiderato che lo aiutassi, non so come, a farlo tornare in patria ma il padre ha risposto, ‘No, è meglio che sia un malato di mente in Europa piuttosto che qui’. Questa risposta non mi ha stupito perché in molti Paesi africani ancora c’è il problema della stregoneria e la maggior parte della gente è poligama. Non è affatto raro che una moglie possa uccidere i figli di un’altra delle donne di suo marito. A quanto pare, il padre di questo ragazzo aveva modo di pensare che, se questo fosse tornato, una delle sue mogli avrebbe potuto ammazzarlo.
Inoltre, qui ad Atene, non so perché, ultimamente hanno cominciato a buttare fuori di casa la gente come se niente fosse, anche le persone che hanno dei bambini piccoli.”
Proprio in questo momento una donna raggiunge B., è agitata, è stata appena buttata fuori di casa e ha un bambino piccolo. Da quello che capisco, perché parlano inglese ma anche quella che dev’essere una qualche lingua africana, la donna ha già trovato un’altra soluzione abitativa, ma è ancora tutto molto incerto e sembra che lei abbia ancora la sua roba nella casa da cui l’hanno buttata fuori, ma che nessuno si scomodi per darle il permesso di farla accedere alla casa per recuperarla. Se non hai soldi e non hai nessuno a cui appoggiarti, è sorprendente la facilità con cui puoi ritrovarti per strada. Proprio stamani, mentre sono uscita da un grande negozio in una delle piazze centrali della città, ho visto un papà seduto sul marciapiede, con due bambine. Fuori faceva freddo, anche oggi piove e sembra che sia tornato l’inverno. Le bambine non dimostravano più di sette anni. Avrebbero dovuto essere a scuola. Dovrebbero avere una casa. Il primo giorno, invece, lasciato il centro di LSWB, quando se ne sono andati tutti, sono andata a visitare una zona molto turistica e lì, fra i negozi e i turisti, ho notato una madre con una bambina di massimo quattro anni, che chiedeva l’elemosina. Un uomo le si è avvicinato e le ha lasciato un sacchetto contenente del cibo. La donna lo ha aperto, ha tirato fuori quella che sembrava una brioche e l’ha divisa in due. Ne ha mangiata una parte e ha dato l’altra alla bambina.
Qualunque sia il motivo che spinge qualcuno (ma chi?) a buttare fuori di casa queste persone, non sta in piedi. Con che cuore è possibile mandare per strada delle famiglie intere, spesso con bambini piccoli? Tante di queste persone, non avendo i documenti in regola, non ci pensano neanche ad andare alla polizia, correndo il rischio di essere rimandate nei loro Paesi.
È sera, sono in hotel. È tutto pronto per la partenza di domattina. Ho prenotato un taxi e, in circa un’ora, arriverò all’aeroporto. La partenza dall’hotel sarà intorno alle 5.30.
Sono ancora sconvolta dalla storia di B. In realtà, tutte le storie che ho ascoltato mi hanno lasciato qualcosa, forse perché mi aspettavo di trovare una sorta di “Roma greca”, ma è ovvio che la struttura sociale del Paese è diversa da quella italiana. È come se Atene avesse due facce. Se hai il passaporto (ed è già tanto) e soprattutto se lo hai “giusto”, ovvero occidentale, allora ti si aprono le meraviglie dell’arte e della storia, l’Acropoli, i ristoranti con i cibi prelibati, i negozi, i trenini turistici, il personale dell’hotel che ti saluta con “Kalimera!” e al rientro ti chiede se hai passato una bella giornata. Hai l’ombrello aperto quando piove e se fa freddo entri in qualche locale del centro dove il piatto più economico, ovvero un toast, costa minimo cinque Euro. Puoi anche rilassarti in hotel o fare shopping. Puoi prendere un taxi, se non hai voglia di usare la metro e non ti vuoi bagnare. Puoi pianificare delle escursioni alle isole, dai cento Euro in su.
Se il passaporto non ce l’hai, o se è “sbagliato”, Atene è molto diversa. La tua Atene è sporca, grigia, fatta di marciapiedi, del dover dipendere dall’aiuto di persone e organizzazioni fantastiche come Maria e la sua LSWB, con tutte le persone che ne fanno parte. Lavori per una miseria, devi tirar su dei figli senza avere il supporto e spesso i soldi necessari. Vuoi rimanere qui, eppure sogni di tornare indietro, nel tuo Paese, perché è lì che si trova ancora parte della tua famiglia, e del tuo cuore.
Lo so che tutto questo può sembrare eccessivamente naive, e so anche che il mondo purtroppo è messo davvero male, forse questa attuale è la peggiore situazione in assoluto da quando sono un’adulta, con guerre sparse ovunque, quella in Ucraina così vicina a noi e le altre fondamentalmente dimenticate, e con un individualismo, un consumismo, una tendenza a voler ferire gli altri e a volerci occupare solo di noi stessi e dei nostri cari che in un certo senso spaventa ancora di più della violenza fisica, perché è proprio sull’indifferenza, sul reputarsi innocenti e al sicuro da eventuali accuse perché “non si è fatto niente”, che si basano le fondamenta dei conflitti e delle differenze fra esseri umani, come c’insegna la Storia.
Eppure, nonostante sappia che quanto sto per scrivere è degno di una fiaba, non posso fare a meno di volere un mondo dove tutti abbiamo gli stessi diritti. La cosa buffa è che un mondo del genere esiste già su carta, ci sono tutte quelle dichiarazioni che attestano che ogni singola persona, a prescindere dal Paese in cui nasce e da qualunque altro fattore (religione, colore della pelle e via dicendo) ha accesso a dei diritti umani dal momento in cui emette il primo vagito. Allora forse, se esistono tutti questi documenti per attestare i diritti umani che spettano a ognuno di noi, forse il discorso non è poi così utopico. Il problema è che, ovviamente, le leggi vengono spesso ignorate oppure usate solo quando ci fa comodo e quando non intralciano qualche tornaconto personale. Si tende ad aiutare, quindi, “fino a un certo punto” e non tutti ricevono gli stessi aiuti. Mentre mi appresto a lasciare Atene, so che tornerò alla mia vita quotidiana con una facilità disarmante. Riprenderò le mie abitudini, certo, ma tutti questi viaggi cominciano a plasmarmi seriamente come persona in più modi di quanti riuscirò mai a condividere con le parole. Una parte di me resterà qui, perché non potrò dimenticare tutte le persone che ho conosciuto, le cui vite saranno ancora difficili domani e fra un mese, e forse per sempre. Le loro situazioni non miglioreranno perché io me ne sarò andata da qui e non le vedrò più con i miei occhi. Parlando al telefono con una mia amica, a cui ho raccontato velocemente quello che ho visto e sentito da queste persone, lei mi ha detto, “Sento che sei così determinata!” e mi rendo conto che è vero. Lo sono, se possibile più di prima, perché è inaccettabile che nel 2022, in un continente evoluto e teoricamente democratico come l’Europa, sia permesso che delle persone, fra cui dei bambini, debbano vivere con quest’incertezza e in certe condizioni, come se fossero esseri umani di serie B. Io non ci sto, e nel mio piccolo continuerò a parlare di loro, a dar loro voce, a girare il mondo per incontrare altri esseri umani come loro. Forse non cambierà niente, forse invece scuoterà una coscienza o due. In ogni caso, sento che lo devo fare.